Nära livet (Alle soglie della vita) > Ingmar Bergman

Nära livet (Alle soglie della vita)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1958)
recensione a cura di Leonardo Persia

 

Un film di Bergman che riduce al minimo plot, attori e scenario. Amplificati i silenzi tra un dialogo e l’altro; ristretti i piani, limitati quasi esclusivamente al volto umano; tolta la musica; pittati di bianco gli sfondi vuoti. Gli spazi rivelano così potenzialità proliferanti e frontali: il luogo dove si annida, scivoloso, mai completamente afferrabile, il senso. Il nuovo metodo da camera a venire è inaugurato. Esecuzione ed esecutori (personaggi) al minimo, un po’ di solisti, semplicità apparente.

La sceneggiatura di Ulla Isaksson, operante su alcuni suoi racconti, è teatralmente scandita, attraverso un trio emblematico di donne. Ancora in attesa. Non (solamente) dei loro uomini, ma dei propri figli in procinto di nascere. Gestanti. Dee. Perché la vita che stanno per dare è l’esistenza tout-court. Un mistero. L’attesa estesa, quindi, pure all’arrivo di un altro da sé: una risposta, una trasformazione, un progresso. Il nascituro esprime le possibilità del vivere, l’essere colto dal principio. «Forse qui non ci squarciano solo il ventre. Anche l’anima ci tagliano».

Bergman è consapevole di affrontare il mistero alle soglie, come in uno specchio paolino. Cioè opaco, deformante. Molte domande, qualche ipotesi di risposta. Dietro il vetro smerigliato della porta, la Marta di Donne in attesa scorgeva una figura horror. Adesso, nei titoli di testa, scorrono immagini indistinte, inafferrabili le voci, e si ode da lontano la sirena di un’autoambulanza, a rinnovare l’oscurità e l’inquietudine rappresentata da una parete trasparente da cui poco traspare. Siamo davvero Alle soglie della vita. Dinanzi a una porta chiusa.

La porta si apre ed è come se il regista ci volesse mostrare, dall’interno, l’opalescenza ambigua dell’esistenza. Siamo nel più ameno dei reparti ospedalieri, quello ostetrico-ginecologico, spazio metaforico di mondo da cui si ha origine, luogo candido, asettico e bianco, a contorno di una serie completa di (o)scure percezioni. Le tre donne sono cielo, terra, acqua. Trascendenza, limite, creatività. Il numero di padre, madre e figlio, come si è visto nei precedenti film. Se ne Il settimo sigillo, la triade era piena, Il posto delle fragole la rendeva precaria e gelida. Adesso vien messa ancor più in rilievo l’interna separazione. Bergman sfalda i luoghi comuni sulla volontà, il desiderio, il destino. La provvidenza soffia dove vuole. Nulla è come appare, tutto può sterzare altrove. Nel bene e nel male, oltre il bene e il male.

L’autoambulanza ha portato nel reparto Cecilia (Ingrid Thulin), partoriente con emorragia. Il marito Anders (Erland Josephson) è pedante e petulante, se ne sente subito l’inadeguatezza, l’innaturalità. E quell’aborto imminente, preannunciato dalla caduta di una bambola, giocattolo di una bimba trascinata dai genitori al momento di una chiamata (un parto? un responso?), si immette subito in un gioco estensivo di senso che, come si è detto, nasconde simboli in una tessitura drammaturgica e registica di evidentissimo nitore espressivo, densamente semplice. Il bimbo è la novità che non nasce. «Quel figlio non era desiderato. Il padre non lo voleva e la madre non è stata tanto forte da proteggerlo». Parla la madre mancata, ad ascoltarla la caposala Brita (Hiort af Ornas), paziente e discreta, amorevole e saggia. Sostituisce l’angelo protettore dei primi film, gradualmente spalmato nel tessuto psicologico, non più schematico, dei ritratti successivi.

La schermaglia amorosa d’odio a seguire tra Cecilia e Anders svela tutta l’impalcatura artificiale di quel matrimonio. Dopo aver meditato la separazione, la crisi della donna (non) si risolve, decidendo di restare col marito. A convincerla è la cognata, simbolica figura in between, con una disseccata, incisiva, toccante e irrisolta descrizione della terribilità della solitudine. La gelida e bellissima Greta (Inga Landgré) ne parla come se si riferisse a sé stessa, facendo balenare la frazione di un terrore abissale. Ma Bergman resta economo, si ferma nuovamente sulla soglia. Il dialogo, non certo inedito, potenzialmente bellissimo, viene troncato immediatamente. Tutta l’impostazione del film consiste nel fermarsi a un dipresso della rivelazione. Nessuno snodo, contenimento emozionale, nonostante una coraggiosa prossimità all’intimità dei personaggi.

All’opposto complementare di Cecilia c’è l’attesa di esagerato entusiasmo di Stina, donna che sull’evento ripone tutto, simbolo di vitalità sbilanciata. Eva Dahlbeck, con le treccine e le filastrocche cantate, rappresenta un sentire bambino, fresco e positivo, nella linea delle due Sare de Il posto delle fragole o della Monica desiderante. Con il rischio, quindi, specie considerato il secondo paragone, di scivolare verso l’opposto. Ottimismo costruito, ingenuo. Non candidamente adulto come quello della compiuta famiglia bergmaniana capace di sciogliere il ghiaccio di esseri induriti.

 

 

Le scene impacciate di matrimonio, timidamente trepidanti, tra la donna e il marito (Max von Sydow), con quasi lo stesso (cog)nome dell’altro coniuge, Andersson, esprimono il versante di una vita ben accetta ma precaria. D’altronde quale vita non lo è? I sorrisi deviano, inaspettati, nelle urla di un parto difficile che andrà a male. Il bimbo nasce morto e impassibile si rivela la crudezza di regia nell’esplorare il dolore, fisico e morale. Senza calcare il tono, forte per statuto, osserva con partecipe distacco. Stina è come si prosciugasse della vitalità, diventa l’esistenza battezzata, al di là della linea d’ombra. Vivere è anche (soprattutto?) questo.

Alla fine, a portare a termine (fuori film) la gravidanza è Hjördis (Bibi Andersson), la più giovane e inesperta, confusa nei sentimenti, ragazza madre che odia i bambini (perché la sua condizione non gli permette di amarli adeguatamente), invitata da una collega ad abortire, spaventata da un possibile rientro in famiglia. In tutti i casi, l’unica che matura un percorso di consapevolezza, il che è lo stesso. Nasce un bimbo, nel film, (s)e nasce qualcosa all’interno e attorno al mondo della partoriente. Ma non è detto. Quando la ragazza esce dall’ospedale, decisa a tornare a casa, la porta prima chiusa, poi spalancata, adesso va su e giù, svela il travaglio interiore del vivere. Porta mobile, da cui si entra e si esce, mutando, senza sosta. In un altro film dell’autore, questo incessante muoversi, si diceva, costituiva il senso della vita (e della morte).

Senza darlo a vedere, annettendoli e rovesciandoli, Bergman specchia in questo tutti i film precedenti, alle soglie di un nuovo modo di fare cinema. Il bianco dominante ingloba le tenebre della morte, le capovolge in vita, appunto. L’osservare la fine altrui, in ospedale o altrove, diventa adesso sguardo sulla nascita. E se alle soglie della morte veniva rifondata la vita, è la potenzialità della nascita a svelare adesso il controcanto funereo. Vita e morte come verità assolute, denotanti sacralità.

Rispetto a questa sacralità, il cineasta persegue una nudità stilistica in linea con i tardi anni ’50 brechtianamente ispirati, che consente, anche in virtù del tema, un’attivazione partecipe dello spettatore. Il Rossellini superficialmente preso a modello neorealistico per La città della nebbia, traspare adesso in pieno nella materica fenomenologia dei passaggi esistenziali, nell’abbattimento delle gerarchie di riprese. Per cui il personaggio più emblematico e importante del film, la caposala Brita, angelo del reparto, il consueto quattro che supera e (de)stabilizza il tre, è come se venisse relegata sullo sfondo, persa nell’annullamento di gerarchie drammaturgiche e di ripresa.

È l’autentica levatrice del film, colei che attiva il processo maieutico di Hjördis, a cui tiene la mano mentre parla al telefono con la madre. Pure in questo momento fondamentale, la regia evita i dettagli, non restringe e isola i piani. L’umiltà del personaggio (parente della ragazza muta de Il settimo sigillo o l’Anna di Sussurri e grida) investe la forma del film, è spinta a una quasi sparizione dal campo. Mai enfatizzato o isolato il suo volto amorevole, perso nel quadro d’insieme dei medici e infermieri professionalmente freddi, come quando guarda (proprio nel senso etimologico di custodire, assistere) Stina, reduce addolorata del parto mancato.

A lei contrapposti, il discorso assistenzial-burocratico dell’assistente sociale, che magnifica le sorti progressive della società svedese; le domande e le risposte del gelido dottor Thylenius; il disagio dell’infermiera quando Stina si stringe a lei, attanagliata dalle contrazioni. E quei fiori, così ipocritamente augurali in un microcosmo dove l’asetticità diventa un sinonimo di fredda razionalità e incapacità d’amore e di giudizio. Non è casuale che quando un’infermiera porta i fiori per Stina, Hjördis glielo impedisca. «Comincia la sfilata dei fiori? E’ peggio di una serra qui». La serra bergmaniana, come si è visto (Piove sul nostro amore) e si vedrà (L’adultera), soffoca le potenzialità, è l’innaturale elevato a norma, la porta chiusa alla vita.

Si può scegliere quella via, senza intingersi di scuro evidente. Si è perbene anche non facendo del male, ci dice Bergman. Il reparto messo in scena è altero, impeccabile, come tutta l’efficienza esterna delle istituzioni a cui rimanda, famiglia compresa. In un film dove è lo spettatore a dover snidare ciò che mai è palesemente mostrato e dimostrato, il diavolo, discreto e quasi invisibile in linea con la cifra espressiva del film, continua, come in Prigione, a governare il mondo.

Leonardo Persia

 

Nära livet (Alle soglie della vita)
Regia: Ingmar Bergman
Soggetto: Ingmar Bergman, Ulla Isaksson
Sceneggiatura: Ulla Isaksson
Fotografia: Max Wilén
Montaggio: Carl-Olov Skeppstedt
Scenografia: Bibi Lindström
Trucco: Nils Nittel
Interpreti: Eva Dahlbeck (Stina Andersson), Ingrid Thulin (Cecilia Ellius), Bibi Andersson (Hjördis Petterson), Barbro Hiort af Ornäs (l’infermiera Brita), Erland Josephson (Anders Ellius), Max von Sydow (Harry Andersson), Gunnar Sjöberg (il dottor Nordlander), Ann-Marie Gyllenspetz (l’assistente sociale Gran), Inga Landgré (Greta Ellius)
Casa di produzione: Inter-American Productions, Jerome Balsam Films, Nordisk Tonefilm
Rapporto: 1,37 : 1
Paese: Svezia
Anno: 1958
Durata: 84′

 


 

 



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