Giacomo Manzoni e la sua musica superflua nel film Malina di Werner Schroeter
“[…] Voglio spassarmela, io.”
“Un appartamento a Mayfair?”
“Si capisce.”
“Champagne a tutti i pasti?”
“Naturale.”
“Rolls Royce?”
“Anche.”
“Ma lascerai qualcosa per soccorrere il proletariato indigente, vero? Darai al popolo quello che ti avanza?”
“Non avanzerà niente.”
Ero un po’ imbarazzato. Prima d’allora non avevo mai avuto un approfondito scambio d’idee con un comunista.
– P. G. Wodehouse, Le zie non sono gentiluomini
Conoscete il film Malina girato da Werner Schroeter nel 1991 e con un’Isabelle Huppert in istato di nevrosi più spiccato del solito? Sono pronto a credere che leggendo il titolo del presente articolo, qualcuno si sia chiesto se non avessi sbagliato, intendendo Malena di Giuseppe Tornatore, con una sensuale Monica Bellucci. Ebbene, posseggo Malina sul nastro magnetico VHS editoriale . “Esercizio di postavanguardia spesso irritante, che non rende un buon servizio al testo omonimo (autobiografico) di Ingeborg Bachmann, sceneggiato da Elfriede Jelinek”: così si esprime Mereghetti nel suo Dizionario dei film omonimo, stroncando un lavoro sul quale però aggiunge: “La parte finale […] mostra comunque il notevole estro visionario di un regista come Schroeter”. In quanto compositore, parlerò della musica di questo film, perché si tratta d’un rarissimo caso in cui un noto musicista italiano abbia lavorato per un film mitteleuropeo.
Il nome del compositore in oggetto è lo stesso di uno scultore bergamasco: Giacomo Manzoni. Lo scultore è noto come Manzù e ci ha lasciato dei capolavori. Giacomo Manzoni è invece noto come Giacomo Manzoni e basta, e che ci abbia lasciato dei capolavori è da discutersi, nonostante quanto scrisse su di lui – per lunghi anni – il sodale Luigi Pestalozza (classe 1928), celebre critico musicale sul quale scrisse – a sua volta – Giancarlo Grossini: “Milanese di ricca famiglia caduta in povertà durante il fascismo […] Pestalozza fa della militanza nel partito comunista la ragione di vita, fusa all’interesse per il pentagramma”.
Citerò qui un piccolo passaggio pestalozziano su di un’importante composizione di Manzoni, Dedica, che ho riascoltata dal mio compact disc – per fini di rigore filologico – in vista della composizione di questa critica: “La musica di Dedica non fà (sic, purtroppo) da didascalia, nemmeno espressiva, alle parole, e la struttura materiale costruita, anzi organizzata sui materiali maderniani, ne dimentica senza fatica la fisionomia, dà luogo alla musica che in nessun modo sarebbe riducibile a una musica già fatta, che si dirige anzi contro la comoda pratica delle simulazioni.”
Nato nel 1932, pluripremiato (nel 1990 con la Medaglia ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte; nel 2007 con il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia, che fino al 1942 – inteso come premio per il miglior film italiano e straniero – si chiamava Coppa Mussolini), accademico ordinario (per lunghi anni docente a Bologna e a Milano) nonché straordinario (tenne corsi di perfezionamento a Fiesole); critico dell’Unità dal 1958 al 1966, germanista, traduttore (fra l’altro, di Adorno), Manzoni è forse sintetizzabile con due sole parole: “avanguardista oltranzista”. Ferreo sostenitore dell’ideologia dialettico-materialista – ancor oggi, quando qualche anno fa lo sentii dire nella nobiliare villa veneta di sua moglie che “attualmente non è il momento storico in cui si possa realizzare il comunismo reale, ma questa resta per me l’idea unica di società futura, visto che non credo in nessuna risurrezione dopo la morte, con la quale finisce tutto” –, scrisse alcuni pezzi i cui titoli oggi porrebbero un po’ in imbarazzo, se non fosse che la patina del tempo ha sortiti i suoi effetti, mitigandone la portata e rendendoli dei simpatici cimeli rivoluzionari per collezionisti (“La mia generazione ha fallito la rivoluzione!”, così Manzoni al sottoscritto, nel suo appartamento milanese in città): Atomtod (in tedesco: “Morte Atomica”), del 1964, Per Massimiliano Robespierre (sic), del 1975 (entrambe opere teatrali), Ombre – Alla memoria di Che Guevara per coro e orchestra, del 1968, Allen per lettore e orchestra da camera, su testo tratto dal Diario indiano di Allen Ginsberg, del 1996; e direi che basti.
Mi ha sempre incuriosito il fatto, piuttosto bizzarro, che un lavoro dedicato a quel sanguinario discendente dalla nobiltà di toga (noblesse de robe, nel regime antecedente al 1789) che era Maximilien de Robespierre, sia stato intitolato da Manzoni con la traduzione italiana del nome francese del giacobino, finito a sua volta sotto la ghigliottina: “Massimiliano”. Parrebbe un balzano omaggio alle traduzioni – tipiche del fascimo – dei nomi propri stranieri, tali per cui si leggeva “Volfango Amedeo Mozart” o “Luigi Beethoven” nonché “Vladimiro Ulic Ulianoff, detto Nicola Lenin” (cfr. Il Melzi Scientifico, Vallardi 1941). Ma i titoli sono pur sempre una scelta personale: la musica è ciò che conta (sarà vero?).
Ebbene, un autorevole musicologo mio amico mi accennò al fatto che sul popolare Social Network Facebook vi è stato chi – in modo invero maligno e burlone – si ripropose di creare un “Gruppo per l’abolizione della musica di Giacomo Manzoni”. Non ci spingeremo a tanto, ma certo è che, seppure altri amici indicavano Masse. Omaggio a Edgar Varèse come una partitura pregna di significato, non si può restare silenti dinanzi a una musica davvero superflua e piena di cliché qual è quella che scrisse per il film di Schroeter, giungendo a trarne anche una Malinamusik per orchestra dalla colonna sonora del film. Il tremolare tardoespressionista degli archi, fin dall’inizio, nelle primissime scene, in una sospensione che ha certo contribuito – in quella forma di scrittura musicale così di maniera e del tutto priva di ironia – a far sì che l’idea di “avanguardia” divenisse invisa ai più, fino al punto da essere identificata purtroppo come il “rumore di porte scricchiolanti”, non è controbilanciato da quei mesti bubbolii dei fiati, laddove il solito flauto traverso disegna melismi scaleni per la retorica dell’angoscia. Il punto è questo: vada anche per il tremolare degli archi, per gli sghembi interventi del flauto; ma che questo si protragga costantemente per tutto il lungometraggio è davvero increscioso, privo di gusto. Dapprima i tremoli ascendono, poi discendono, quindi s’interrompono. E viceversa. Se non c’è il tremolare c’è il pizzicare, il picchiettare, sopra o sotto il ponticello, col legno. Ed ecco il ciangottio dei fiati, con i soliti intervalli. Se non è il flauto è l’oboe o il clarinetto, o chi per essi. A un certo punto compare la voce, e gli intervalli sono i soliti dei fiati. Ho provato a “riascoltare” il film rigorosamente, senza guardare le immagini e prestando attenzione alla sola musica. Raramente si ha l’impressione che Il clamoroso non incominciar neppure (sto citando un meraviglioso titolo di Manzoni stesso per una sua partitura, il quale – a sua volta – lo carpì al poeta Augusto Blotto, in un libro pubblicato da Rebellato nel 1968) sia così letterale: se talora i fiati disegnano arabescati melismi, si può star certi che non vi è finalità se non quella di tradurre in modo pletorico quanto già accade nella lacerata esistenza della protagonista. “Inventare, bisogna!” – Manzoni usa ripetere nelle varie interviste che gli furono rivolte. Già. Ma cosa? “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, scrisse il chimico de Lavoisier: non dimentichiamocelo.
La colonna sonora di Malina presenta anche altre musiche, alle quali magari non si fa caso vista la struttura difficilmente decifrabile del film: l’Aria Non piangete i casi miei dall’Antigone di Tomaso Traetta; l’Aria di Rezia Ocean thou mighty monster (“Tu Oceano, potente mostro”) dall’Oberon di Carl Maria von Weber; l’Aria di Leonora Komm’ Hoffnung, lass den letzten Stern (“Vieni, Speranza, non far impallidire l’ultima stella…”) dal Fidelio di Ludwig van Beethoven, la nota canzone Wer schmeisst denn da mit Lehm di Claire Waldoff e infine, sui titoli di coda, Omaggio a Josquin dello stesso Manzoni: bellissima composizione del 1985; una rispettosa trascrizione – però – dal grande compositore quattrocentesco Josquin Després. Un allievo di mezza età di Manzoni all’accanità – e disperata – ricerca di “nuovi” suoni, col quale ebbi a interloquire, mi disse un giorno che la colonna sonora di Malina fosse – a suo parere – “la migliore composizione del maestro”. Transeat.
A Manzoni, nonostante tutto, noi “nipotini” (davvero “proletari musicali”: privi di cattedre, di orchestre sinfoniche, di teatri: non ci è davvero rimasto nulla) bisogna essere riconoscenti per varie cose: la sua assai utile Guida all’ascolto della musica sinfonica, tuttora in auge presso Feltrinelli; le sue traduzioni di alcuni testi musicologici di T. W. Adorno (furono pionieristiche e nessuno vi ha ancora rimesso mano: se non fosse stato per lui non avremmo nemmeno la traduzione della Filosofia della musica moderna – pazienza se il titolo è tradotto in modo impreciso); alcune analisi di Schoenberg (ricordo un bel saggio degli anni ’50 su Un sopravvissuto da Varsavia), gli articoli per il Dizionario Letterario Bompiani degli anni ’60 (sintetici e pregnanti). Infine, l’aver sposato Eugenia Tretti, sorella e attrice del geniale regista Augusto – fuori da ogni schema, anche politico – scomparso qualche anno fa, autore de La legge della tromba, Il potere e Alcool.
Insomma, come scrisse l’antiquario seicentesco John Aubrey a proposito di Edmund Gunter, fabbricante di strumenti matematici e autore del trattato Libro del quadrante e del settore: “Non omnia possumus omnes. (Non tutti possiamo tutto). Il mondo gli è molto riconoscente per quel che fece bene”.
Dario Agazzi
vedi anche: Luigi Pestalozza, un’appendice