Safari > Ulrich Seidl

Le parole, banalmente, hanno un significato preciso a seconda di chi le pronuncia o di chi le legge. Safari dentro la mia testa si associa immediatamente a Fasano, una ridente cittadina della provincia di Brindisi che dagli anni ’70 ospita uno zoo safari, meta ambita di famigliole accaldate in cerca di emozioni al ritmo di reggaeton. Così inscatolati e sghignazzanti lanciano semi ed arbusti a dromedari e giraffe che vagano disorientati alla ricerca dell’Africa. Chissà quanti di voi ci sono stati, ascoltando brutta musica. Chissà quanti di voi hanno pensato a Jovanotti. Safari dentro la mia fiesta, ci sono più bestie che nella foresta. Questa la chiamo simmetria logica.

Ulrich Seidl è sicuramente tra i pochi documentaristi in grado di coniugare ricerca estetica e profondità di analisi, dai suoi sconcertanti spaccati di vita zampillano tutte le contraddizioni di noi grotteschi essere umani. Siamo tutti dentro le sue simmetriche esecuzioni. Safari è sicuramente un lavoro ben riuscito, pornografico quanto gli altri. Turisti austriaci e tedeschi passano il tempo sparando ad indifesi mastodonti africani sotto gli occhi complici degli indigeni che subiscono l’invasione di questi pachidermi dalla pelle bianca senza battere ciglio. La riflessione più semplice e scontata è senza dubbio quella sull’eticità e sulla moralità di questo turismo fatto di agguati mortali, sul razzismo sbandierato come una moneta forte e su quanto sia evidente che tedeschi ed austriaci di mezza età siano paonazzi e in sovrappeso, con l’aggravante dei calzini bianchi. In verità guardando Safari mi sono sorte spontanee due domande: è sincero il senso di colpa dichiarato da alcuni dei protagonisti? E infine mi sono domandato perché gli animali si lascino abbattere con tanto fatalismo mentre i sopravvissuti paiono non accorgersi nemmeno del lutto appena consumatosi.
Mi è tornato alla mente Bataille e il suo discorso sulla nascita dell’arte quando dice «[…] in quanto selvaggina possibile, l’animale […] è oggetto di un atteggiamento equivoco da parte del cacciatore; desidera abbatterlo e nutrirsi della sua carne, e nondimeno lo considera venerabile, cerca il suo consenso prima di ucciderlo, piange la sua morte, lo venera e, dopo la morte, può credersi tenuto a riti espiatori». E così i cacciatori di Seidl venerano la bellezza e la rarità delle specie che ambiscono ad ammazzare, senza avere a volte nemmeno il coraggio di pronunciare il verbo uccidere. Per questi unti teutonici l’assassinio è un rituale, un’arte fatta di fucili prodigiosi, di tiri da cecchino e di giraffe con il collo afflosciato che stramazzano al suolo sotto lo sguardo indifferente del branco. Nessuna emozione da nessuna delle due parti, ne le vittime ne i carnefici paiono troppo diversi. Gli uni e gli altri moribondi o comunque condannati. Bianchi, neri, a strisce, a macchie, con criniera o coda, nessuna differenza sensibile. Gli animali vivono la propria vita inutile ignari della morte, nell’auspicabile immanenza. Gli uomini vivono la propria vita inutile cercando affannosamente di tornare ad essere animali ma, consapevoli della morte, sono costretti a pensare al futuro e negandolo alle bestie pensando di allontanarlo dal proprio orizzonte. Erano animali quelli disegnati sulle pareti delle grotte, erano di animali i copricapo che i primitivi indossavano, sono di animali le pellicce che indossano le signore alla Scala e sempre di animali le maschere che i bambini calzano a Carnevale. Ucciderli in ogni modo perché è una parte di noi che cerchiamo di esorcizzare, ciò che non siamo più o almeno ci illudiamo sia davvero così. Ed è per questo che è forse sincero il senso di colpa del cacciatore che spara a chi un tempo è stato un nostro simile, mentre lui stesso finisce nel mirino di Seidl che è capace di creare incredibili simmetrie visive e logiche. Ancora Bataille: «Un rapporto drammatico, nel senso che è talmente intenso e coinvolgente che l’animale cacciato e ucciso viene poi, in una sorta di sentimento di riparazione, trasfigurato e ‘salvato’ nella rappresentazione pittorica, e in questa maniera ‘conservato’ e ‘mantenuto’ nella sua ‘essenza’, come segno incancellabile della descent umana» e così i cari paffuti cacciatori collezionano i trofei della nostra discendenza, sbudellati e lucidati per finire appesi al muro del rimpianto. E forse il loro solo un goffo e vano tentativo di rubare l’animalesca indifferenza verso la morte, ignari di passare dal ludico sadismo al pubblico ludibrio. Il cinema di Seidl finirà col renderli immortali, condannati ad una posa ridicola, lucidissimi trofei perfettamente al centro di un quadro della disperazione. •

Michele Salvezza

 

 

SAFARI
Regia: Ulrich Seidl • Sceneggiatura: Ulrich Seidl, Veronika Franz • Fotografia: Wolfgang Thaler, Jerzy Palacz • Produzione: Ulrich Seidl Film Produktion, Österreichischer Rundfunk (ORF), ARTE Deutschland, Danish Documentary Production, WDR Westdeutscher Rundfunk • Paese: Austria, Danimarca, Germania • Anno: 2016 • Durata: 90′

lab80.it/safari

 

Un’esperienza dolorosa e tremenda. “Safari” di Ulrich Seidl
a cura di Alessio Galbiati

Se l’umanità venisse spazzata via. Alcune note su “Safari” di Seidl
a cura di Dario Agazzi

 

Ulrich Seidl – Intervista
a cura di Roberto Nisi
riprese di Laura Viezzoli
realizzata nel giugno 2013 a Bologna, durante il Biografilm Festival
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