Rock the Casbah > Yariv Horowitz

ROCK THE CASBAH
di Yariv Horowitz (Israele-Francia/2012)
Berlinale 63 – Forum

recensione a cura di Alessio Galbiati
pubblicata all’interno dello speciale BERLINALE 63 in Rapporto Confidenziale 38

 

Non voglio nascondere la mia personalissima, e preconcetta, avversione verso il cinema dedicato alla questione israelo-palestinese che, a mio avviso, da troppi anni ormai restituisce una visione appiattita e inconcludente su uno dei conflitti più drammatici del nostro tempo (ma da quanto dura questo nostro tempo?). Penso sia un cinema che cristallizza le posizioni, troppo spesso incapace di andare oltre a un buonismo di facciata, ma pure un addormentato sguardo sulla realtà che di frequente invade i festival cinematografici europei e nordamericani per via di un diffuso e malcelato “senso di colpa”: eccovi un film sul conflitto fra israeliani e palestinesi, così che non si dica che noi selezionatori non si pensi ai mali del mondo. Come se da quelle terre non possa esserci altro cinema che quello che dia conto del conflitto, dell’occupazione, della paura, dell’asfissia, dei soprusi, della disperazione… ed è per quest’ordine di motivi che su Rapporto Confidenziale abbiamo dato largo spazio a quel cinema, soprattutto israeliano, che cerca strade differenti, come ad esempio Hashoter (Policeman) di Nadav Lapid e Not in Tel Aviv di Nony Geffen; un cinema realizzato da giovani autori stanchi del claustrofobico spazio nel quale si vorrebbe costringerli e capace di restituire un profondo senso di angoscia e disagio verso il precipitare di ogni immaginario all’interno del conflitto, un cinema che intuiamo possa essere letto come un lucido grido di ribellione verso la logica orwelliana di guerra permanente che l’establishment israeliano impone a tutta la popolazione, incurante dei reali costi di una politica così scopertamente scellerata.

Rock the Casbah è un romanzo di formazione per immagini in movimento calato in ambiente di guerra che ricorda molto cinema americano dedicato al Vietnam (Platoon di Oliver Stone su tutti, ma simile a tutte le sue variazioni e derivazioni) e che possiede, grazie alla qualità complessiva della sua realizzazione (che risiede in primis in una straordinaria fattura del montaggio e delle riprese), il pregio di essere prima di tutto un gran bel film, a prescindere da qualsiasi altra considerazione: un ottimo film per quello che si vede al suo interno e non per il “non detto” o per i sensi di colpa di noi spettatori occidentali.

La storia è quella di una compagnia di giovanissimi militari israeliani che, nell’estate del 1989, sono chiamati ad un’azione all’interno della striscia di Gaza. A seguito dell’uccisione di un loro commilitone verrà loro ordinato di occupare la casa dalla quale si è mossa la mano omicida, costringendoli ad una forzata convivenza con la famiglia palestinese che in essa vive (succedeva praticamente la stessa cosa in Private, l’esordio di Saverio Costanzo datato 2004). Costretti a passare il tempo sul tetto dell’edificio, i militari, con la radio a tutto volume (ovviamente il brano dei Clash, da cui il titolo, risuonerà dalle casse della radio), si troveranno a fare i conti con l’assurdità di una situazione priva di logica e con le conseguenti tensioni che essa comporta. Tutta l’azione si svolge nell’arco di pochi giorni e il dramma è esplorato focalizzando in particolar modo la psicologia di uno dei giovani militari, Tomer (Yon Tumarkin), ritratto in maniera non poi così dissimile dal Chris Taylor (Charlie Sheen) del succitato Platoon.

L’opera prima di Yariv Horowitz, connotata da un forte realismo, si sofferma sull’attesa del gruppo di militari, ma non si tira indietro nel mettere in scena, specie nella prima parte del film, le operazioni militari all’interno della striscia di Gaza all’epoca della prima intifada. La macchina da presa segue l’esercito palestinese fra le sassate scagliate dai tetti da ragazzi e bambini palestinesi, restituendo una dimensione sospesa fra gioco e violenza omicida all’interno della quale è impossibile distinguere le reali motivazioni delle parti in causa. La morte del loro compagno, quella che provocherà la loro permanenza all’interno dell’abitazione dentro Gaza, avverrà a causa di una lavatrice gettata da un tetto, con una resa cinematografica sospesa fra il drammatico e il ridicolo. Il tempo della permanenza forzata costringerà Tomer ad aprire gli occhi sulla reale natura del conflitto in corso e sulla mancanza di una via di uscita all’interno di una catena d’odio infinita – sia perché i suoi superiori appaiono incapaci di leggere la reale natura di ciò che li circonda, sia per l’inalienabile diffidenza dei palestinesi nei confronti degli occupanti.

A Berlino 63 Rock the Casbah si è aggiudicato il premio C.I.C.A.E. (Confédération internationale des cinémas d’art et d’essai). •

Alessio Galbiati

 

 

 



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