«Amo molto parlare di niente. È l’unico argomento di cui so tutto»
– Oscar Wilde –
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Anche quest’anno vogliamo giocare con i film e con il calendario.
Abbiamo chiesto a amici e collaboratori, professionisti del settore e cinefili, un elenco dei 5 migliori film usciti, o visti per la prima volta, durante l’anno solare 2012.
Concluderemo a gennaio inoltrato, stilando una classifica del meglio del meglio e un elenco delle segnalazioni… come fatto lo scorso anno.
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Roberto Rippa
Fondatore e Direttore di RC |
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Not in Tel Aviv Intelligente, brillante, sorprendente, spiazzante, ironico, malinconico e con un peculiare gusto per lo sberleffo. Un autore totalmente autodidatta al suo primo film, girato praticamente senza mezzi, gioca con i generi regalando infine una mai scontata “black comedy” romantica e irresistibile in cui dimostra sì i suoi punti di riferimento ma totalmente metabolizzati e filtrati attraverso un gusto personale. |
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Üçüncü Sayfa Un regista che ha fatto di Dostoevskij una presenza costante nel suo cinema, che importa nelle sue opere immergendo i suoi personaggi in un’atmosfera profondamente realistica (in questo caso, quella della terza pagina dei quotidiani del titolo, che in Turchia contiene gli articoli di cronaca nera relativi alla classe media) per raccontare qui di un giovane uomo alle prese con un dilemma. Un giovane attore di secondo piano che sogna il ruolo di «un uomo che riesce a sopravvivere a dispetto di tutta la sofferenza». Non andrà così. |
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A última vez que vi Macau Un film nato in sala di montaggio: un documentario che si trasforma in film noir tornando infine ad essere più documentario che mai. Un film originale, potente e personale da due autori anomali per la prima volta insieme alla regia. A última vez que vi Macau è un film che mescola in modo originale realtà e ricostruzione, omaggio cinefilo (sin dal titolo) e memoria, quella memoria che non sempre ci permette di riconoscere i luoghi che ne fanno parte. Un film dalla poetica personalissima, in cui tutto accade fuori campo e ciò che resta sono ombre, luoghi e una voce ad accompagnarci in quello che sarà un perdersi. Ammaliante. |
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Bir zamanlar Anadolu’da Nuri Bilge Ceylan è senza dubbio uno tra gli autori più interessanti di questa epoca e il suo film è una ulteriore conferma in questo senso (Uzak sarebbe comunque già bastato). Si prende il tempo necessario per sviluppare la sua storia ed è esattamente il tempo che ci vuole, per evitare abusati e inutili colpi di scena o momenti di drammatica vacuità cinematografica. E Nuri Bilge Ceylan sa definire i suoi personaggi al meglio e chiede per loro una non sollecitata empatia, esattamente come ne abbiamo bisogno noi nella realtà. È un altro di quei rari autori che chiedono di essere valutati per il loro intero percorso i cui singoli capitoli rappresentano un momento di pura riflessione sul senso dell’essere umano. Inoltre, i suoi film hanno sempre il potere di rimetterci al nostro giusto posto nell’universo. |
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ex aequo È vero, non è un film. Perché realizzato da un uomo che non è un regista né uno sceneggiatore, che non può più essere un regista né uno sceneggiatore. È un urlo contro una solenne ingiustizia, contro un regime che regola la libertà a suon di anacronistiche e violente sentenze e che non fatica per nulla a rimanere sordo di fronte alla protesta mondiale. Jafar Panahi è uno tra i registi più importanti della nostra epoca. Arrestato in seguito ai moti di protesta levatisi in occasione delle elezioni iraniane del 2009 e condannato a sei anni di prigione con il divieto di girare film o scrivere sceneggiature per vent’anni, Panahi teme che l’inattività possa inaridire la sua ispirazione e per questo fa riprese con il suo telefonino. Coinvolge poi il suo amico produttore e regista Mojtaba Mirtahmasb (Lady of the Roses, 2008) ad aiutarlo a trasgredire al divieto realizzando un piccolo film di 75 minuti che vede Panahi agire come coregista, sceneggiatore, montatore e presenza principale e costante. Nel film, fatto uscire clandestinamente dal Paese (nascosto in una torta) e mostrato a Cannes lo scorso anno, assistiamo a una giornata del marzo 2011 a casa del regista (ma il film è stato realizzato nel corso di alcuni giorni), che attende la sentenza d’appello in compagnia del suo iguana. Panahi racconta alcune scene di quello che avrebbe dovuto essere il suo prossimo film (la storia di una ragazza che viene accettata all’università ma viene rinchiusa in una stanza dal padre tradizionalista per impedirle di frequentarla) – per poi concludere sconsolato: «Se è possibile raccontare un film, perché allora girarlo?») – trasformando l’appartamento in un set delineando gli spazi con del nastro, commenta alcune scene delle sue precedenti opere, parla con il cameraman e, soprattutto, si lascia incuriosire da ciò che accade all’esterno e che riprende con il suo telefonino. È il capodanno persiano, tradizione antichissima – lo stesso che fa da sfondo a Chahar Shanbeh Souri di Asghar Farhadi – oggi vietato da un regime che, come tutti i regimi, è terrorizzato da qualsiasi cosa. |
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ex aequo Ape è un piccolo (per le modalità produttive) gioiello del cinema indipendente statunitense, quello vero, quello realizzato molto lontano da Hollywood e senza i mezzi abituali del cinema indipendente statunitense. Con irresistibile approccio punk (di chi punk lo è davvero dentro), Potrykus mescola Scorsese, Alan Clarke, forse un pizzico di Slava Tsukerman, la Nouvelle Vague, persino il Faust di Goethe, restituendo un film originale di quelli che è raro vedere. Non è un film perfetto ma uno di quelli le cui imperfezioni contribuiscono a rendere migliore il risultato. Per Ape Joel Potrykus ritrova un perfetto alter ego, l’attore e cantante Joshua Burge (già con lui per lo strepitoso corto Coyote), che ha il volto, la presenza e la bravura dei grandi dei classici del muto, con cui stringe uno di quei sodalizi che fanno esplodere lo schermo e che si spera possano durare. Dentro Ape c’è rabbia, ribellione e un senso dell’umorismo peculiare, dietro c’è un regista radicale e originale incapace di ammiccanti strizzate d’occhio. |
menzioni speciali
Amour
di Michael Haneke
(Austria-Francia-Germania/2012)
Fabrizio Fogliato ha saputo spiegarlo meglio di come saprei fare io in questo momento.
Eldfjall
Titolo internazionale: Volcano
di Rúnar Rúnarsson
(Islanda/2011)
Non è mai troppo tardi per crescere. E così un uomo avviato alla depressione per la fine della sua attività lavorativa riscopre se stesso di fronte alla malattia di una moglie che, forse, aveva dato troppo per scontata. Sarà necessario per lui spogliarsi di ogni sovrastruttura e ritrovare il senso più profondo dell’amore per poter prendere una decisione fondamentale. Si può scrivere una storia sulla crescita di un uomo di settant’anni? Si può e si deve. Rúnar Rúnarsson costruisce un film semplice rivelatore di un grande gusto – nelle inquadrature e anche nell’utilizzo delle musiche – che fa a meno di qualsiasi elemento superfluo (sentimentalismo incluso) a favore dell’essenza pura.
Un film drammatico e duro che ci riporta a quanto più conta nelle nostre vite: il non perdere mai di vista gli altri e soprattutto noi stessi.
Holy Motors
di Leos Carax
(Francia-Germania/2012)
Senza parole.
cortometraggi
Arena
(Portogallo/2009)
Cerro Negro
(Portogallo/2011)
Rafa
(Portogallo/2012)
di João Salaviza
Un autore decisamente attento ai suoi personaggi e agli spazi in cui sono immersi. Nel momento in cui il cinema portoghese attraversa una profonda crisi per motivi meramente politici, è un autentico piacere scoprire un autore preciso, originale e forte di un punto di vista e uno stile davvero personali. Questa trilogia si compone degli ultimi tre titoli realizzati da Salaviza, che ne ha girati altri in passato.
Da tenere d’occhio. Non diventerà un autore importante, lo è già.
Hiçbir Karanlık Unutturamaz
(No Darkness Will Make Us Forget | Turchia/2011)
Bir Hayatı Masal Gibi Anlatmak!
(Life as a Fable a Narrative! | Turchia/2012)
di Hüseyin Karabey
Hüseyin Karabey è un autore che non scende a compromessi con il linguaggio cinematografico, che anzi piega alle sue esigenze di racconto. Un autore impegnato, disposto a pagare in prima persona per le sue idee, dallo sguardo personale e diretto ma anche profondamente convinto che sarà l’amore a salvarci. Se nel suo bellissimo lungometraggio d’esordio Gitmek – "Benim Marlon ve Brandom" del 2008 mescola realtà e fedele ricostruzione per parlare di libertà e guerra, qui usa l’animazione per ricostruire un evento di svolta nella storia del suo Paese. Un pugno nello stomaco ma anche la profonda convinzione che le cose possono sempre cambiare in meglio se ci assumiamo la responsabilità di volerlo veramente. Poche parole per un bellissimo corto che potete vedere qui: rapportoconfidenziale.org/?p=25189
In Life as a Fable a Narrative!, Hüseyin Karabey, parte da una dichiarazione di Robert Bresson («Non ci può essere legame tra teatro e cinema senza che uno distrugga l’altro») per tornare a mescolare i linguaggi mettendo in scena la vera storia di Jülide Kural, attrice che scopre fortuitamente la figura di Frida Kahlo e ne rimane appassionata al punto di lavorare senza risparmio di fatica per cinque anni a uno spettacolo teatrale sulla sua vita, convinta anche che l’eco delle sue battaglie possa costituire un bene per il suo stesso Paese. A un certo punto, persona e personaggio si sovrapporranno nelle difficoltà del reale rischiando di mettere a repentaglio non solo lo spettacolo ma la vita dell’attrice e regista stessa.
Karabey fonde nuovamente qui due linguaggi diversi in modo mirabile, confermandosi uno tra gli autori europei contemporanei più interessanti.
Un cartus de kent si un pachet de cafea
Titolo internazionale: Coffee and Cigarettes
di Cristi Puiu
(Romania/2004)
Tatal ha lavorato per 31 anni come autista e ha perso il lavoro due anni prima della pensione. Si rivolge quindi a suo figlio Fiul perché lo aiuti. Fiul è un uomo d’affari, o almeno appare come tale, e non pare provare particolare compassione per il padre, che tra l’altro accudisce la moglie semi paralizzata. Una stecca di Kent e un pacco di caffè sono il prezzo da pagare per corrompere chi gli potrà dare un lavoro come guardiano notturno ma Tatal non beve caffè e compera un pacco di caffè solubile anziché di Lavazza come preteso dal figlio, imbarazzato dal più povero acquisto. Caffè e sigarette, due beni di consumo comuni che non sono più prerogativa di pochi come in tempo di guerra ma che in tempo di crisi possono tornare ad esserlo, sono il simbolo della divisione tra un figlio nuovo ricco e molto poco empatico e un padre in grave difficoltà economica. L’incomunicabilità tra i due è totale: il figlio non è interessato ad ascoltare ciò che per il padre pare essere fondamentale e il padre stenta a comprendere ciò che il figlio dice in un dialogo che a tratti sfocia nell’assurdo.
Se nel successivo “Aurora”, Cristi Puiu limiterà al minimo il dialogo, aiutato da un personaggio dall’evidente incapacità di esprimersi, questo cortometraggio fa buon uso delle parole per aggiungere un nuovo capitolo sul tema dell’incomunicabilità tanto caro al regista.
Girato un anno prima che Cannes premiasse il bellissimo “Moartea domnului Lazarescu” nella sezione Un Certain Regard, Un cartus de kent si un pachet de cafea racconta in 15 minuti due mondi che difficilmente potranno incontrarsi. Non solo la storia personale di due individui ma anche il simbolo del cambiamento avvenuto tra una generazione e la successiva in un Paese in costante e dolorosa trasformazione.
Dei titoli selezionati da Roberto Rippa tra il meglio del 2012, su RC puoi trovare:
▪ "Not in Tel Aviv" di Nony Geffen – recensione a cura di Roberto Rippa
▪ "Not in Tel Aviv" by Nony Geffen – review by Roberto Rippa
▪ Intervista a Nony Geffen – a cura di Roberto Rippa
▪ Interview With Nony Geffen – by Roberto Rippa
▪ "Amour" di Michael Haneke – recensione a cura di Fabrizio Fogliato
▪ "Amour" di Michael Haneke – CriticsBlob
▪ "A última vez que vi Macau" di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata – recensione a cura di Alessio Galbiati
▪ Intervista a João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata – a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa
▪ "Arena" di João Salaviza – recensione a cura di Roberto Rippa
▪ "Cerro Negro" di João Salaviza – recensione a cura di Roberto Rippa
▪ "Rafa" di João Salaviza – recensione a cura di Roberto Rippa
▪ "Hiçbir Karanlık Unutturamaz" di Hüseyin Karabey – cortometraggio presente in CINETECA
▪ "Bir Hayatı Masal Gibi Anlatmak!" di Hüseyin Karabey – Recensione a cura di Roberto Rippa
▪ Intervista a Hüseyin Karabey – a cura di Roberto Rippa
▪ "Coyote" di Joel Potrykus – cortometraggio presente in CINETECA
▪ "Ape" di Joel Potrykus – recensione a cura di Roberto Rippa
▪ Intervista a Joshua Burge – a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa
▪ "Chahar Shanbeh Souri" di Asghar Farhadi – recensione a cura di Roberto Rippa
cover image: Not In Tel Aviv di Nony Geffen
Caspita che lista…
Se non fosse per Amour e Holy Motors, che già non son cazzatine, sembrerebbe un puro e semplice sforzo nel cercare il film più inaccessibile. Per carità, i gusti son gusti ma onestamente mi pare davvero eccessivo.
Talmente inaccessibili che un paio si possono vedere integralmente proprio su queste pagine…
Per inaccessibili non intendo non visibili nel cinemino sotto casa, in un modo o l’altro oramai puoi vedere tutto quello che vuoi. Voglio dire che sono film che non ti lasciano entrare facilmente.
ma infatti i titoli segnalati da Roberto sono appunto consigli per una visione. dal momento che immagino tu non li abbia visti (io pur essendo il “socio” di Roberto molti non li ho ancora guardati) perché non accogli la sua lista come un invito alla visione, uno stimolo alla curiosità? cioè qui c’è una persona che nel 2012 ha amato questi film.
ma poi, “entrare”, ma dove devi andare… dove vuoi che ti mandiamo?