Olivier Père

articolo pubblicato in Rapporto Confidenziale numero35 – Speciale Locarno 64. Pagg. 10-16

Il francese Olivier Père, nato a Marsiglia nel 1971, ha studiato Lettere all’università La Sorbonne (Paris IV).
Assunto alla Cineteca francese nel 1995, diventa presto responsabile di programmazione e organizza numerosi omaggi e rassegne tematiche.
Nel 1996 avvia in parallelo una lunga collaborazione con il festival cinematografico « Entrevues » di Belfort, quale organizzatore di retrospettive.
Dal 1997 collabora al settimanale di attualità culturale « Les Inrockuptibles », con regolari contributi alle rubriche cinema, televisione e DVD.
Tra il 2004 e 2009, Olivier Père è delegato generale della Quinzaine des Réalisateurs, sezione indipendente del Festival di Cannes, organizzata dalla SRF (Société des Réalisateurs de Films).
Dal 1° settembre 2009 Olivier Père è il Direttore Artistico del Festival del film Locarno.

Intervista a Olivier Père, direttore artistico del Festival internazionale del film di Locarno

Rapporto Confidenziale: Cominciamo col dire che dopo il grande exploit dello scorso anno c’era, per questa seconda edizione da te diretta, una forte aspettativa. Com’è stato lavorare per la seconda edizione? È stato più difficile oppure è stato più semplice?

Olivier Père: È stato più facile perché il primo anno non è stato un exploit ma, piuttosto, una prima esperienza e soprattutto la cosa più importante dello scorso anno è stata quella di spiegare i cambiamenti, dare una nuova partenza al festival, chiarire alcune cose e dare una visione d’insieme più precisa.
Abbiamo cambiato delle cose che non andavano bene, abbiamo fatto una ridefinizione delle sezioni.
Abbiamo apportato dei cambiamenti per innovare il festival e per comunicarlo ai professionisti, alla gente che va al festival, ma pure agli autori ed ai registi. La scorsa edizione è stata, per quanto mi riguarda, un successo perché la gente ha capito e apprezzato, ha trovato il messaggio del festival positivo e c’era una selezione buona, c’erano degli omaggi. Però la passata edizione l’ho vissuta e concepita come un anno di transizione, con cambiamenti importanti ed un’attenta ricerca di contenuti. Non è stato però semplice trovare i film, comporre una programmazione ed un concorso forti, anche se c’erano pellicole, lo ribadisco una volta ancora, di ottimo livello.
Dopo la soddisfazione di un primo anno riuscito c’era per me, e per la mia squadra artistica, la consapevolezza che si sarebbe potuto fare meglio. E con questa consapevolezza abbiamo lavorato ancora di più alla ricerca di film importanti per il concorso, e per l’offerta complessiva, con l’obiettivo di fare di Locarno un festival ancor più notevole a livello degli eventi da offrire al grande pubblico, cercando di portare una massiccia presenza di artisti, di attori e registi. Devo dire che quest’anno è stato facile, nel senso che abbiamo avuto una fiducia più grande da parte degli autori, dei produttori e dei venditori che, contenti dei risultati dell’anno scorso, hanno avuto un rapporto più agevole con il festival. C’è anche una congiuntura migliore. Penso che quest’anno abbiamo visto, come tutti gli altri grandi festival, la fine della depressione legata alle crisi economiche, che ha condizionato gli ultimi due o tre anni della produzione cinematografica a livello mondiale. Questa, lo si vede soprattutto per il cinema d’autore, è stata veramente una bella stagione, lo si vede a Locarno, lo si è visto Cannes e lo si vedrà a Venezia. Sopratutto a livello dei grandi autori e delle scoperte.
Dal punto di vista artistico è stato più semplice, perché abbiamo viaggiato molto, abbiamo avuto una grande velocità decisionale e di movimento, abbiamo raccolto una gran mole di informazioni, ed è questa la chiave per riuscire a realizzare un grande festival.
L’altra cosa che mancava l’anno scorso era la presenza di eventi speciali e omaggi, pur con la presenza di molto cinema indipendente e d’autore di buon livello. C’era JIA Zhang-ke, c’era John C. Reilly, c’era Menahem Golan. Però mancavano delle cose più forti, non solo per i media, ma per il pubblico di Locarno, che ha bisogno di un festival in grado di parlare a tutti. E questa è stata veramente la cosa più importante, il messaggio che volevo passasse, cioè che il festival di Locarno non è un festival specializzato solo in un certo tipo di cinema, che vuole ghettizzare il cinema popolare per la difesa del cinema indipendente.
Ovvio che Locarno è sempre il luogo di scoperta del cinema d’autore, però è anche un festival con una attitudine molto popolare. Sono rari i festival che come Locarno hanno tanto pubblico che paga per vedere un film e la Piazza Grande è un posto che non esiste in nessun altro festival.
Il desiderio, ed anche la voglia personale, sono stati quelli di invitare a Locarno dei divi, delle star, degli attori e delle attrici fenomenali come Isabelle Huppert, come Claudia Cardinale, come Depadieu, Ganz.
Questa era una cosa che volevo fare già l’anno scorso, ma per vari motivi, problemi di disponibilità, e forse pure per una inesperienza personale visto che alla Quinzaine non avevo l’abitudine di invitare delle star ma solo i film (La Quinzaine des Réalisateurs è una sezione del festival di Cannes per la quale Oliver Père è stato delegato generale tra il 2004 ed il 2009; NdR). Dunque questo rapporto umano, non solo con i registi, ma anche con gli artisti, con attrici ed attori, è una cosa che ci ha messo due anni a prendere forma, ma quest’anno abbiamo ottenuto un risultato che è stato abbastanza spettacolare e che tutti hanno apprezzato e notato. Ogni sera c’erano una o due personalità che hanno fatto, o che fanno ancora, la storia del cinema. Anche questo è Locarno.

RC: Quando parlavamo di exploit il riferimento era soprattutto al fatto che è innegabile che in anni precedenti c’era una preoccupazione concreta sulla perdita di identità del festival, una identità costruita nel tempo che rischiava di perdersi nel nulla. Lo scorso anno vi era stata una connotazione molto forte sopratutto per quanto riguarda il cinema indipendente e quello popolare. Mantenere l’identità del Festival del film di Locarno è difficile? E quest’identità ha bisogno di essere recuperata o c’è ancora?

OP: È un’osservazione corretta. È vero che quando arrivo ad un festival come Locarno, o la Quinzaine, luoghi con una storia ed una identità ben definite, la mia prima ambizione è di essere degno della storia del festival, degno dell’identità, degno delle radici. Penso che per cambiare un festival, per farlo più forte e più eccitante, il primo punto sia, invece di cambiare tutto, di tornare alle radici, alle origini. Le origini di Locarno erano la scoperta del grande cinema d’autore e l’attenzione alle tendenze ed alle correnti del proprio tempo, come il neorealismo, la Nouvelle Vague, come il New Cinema, ed allo stesso tempo rappresentava il glamour, che Locarno all’epoca possedeva come attitudine. C’era il Grand Hotel, c’erano le star americane, le attrici italiane. Locarno è stato anche glamour, una festa, un posto bellissimo, elegante e pieno di classe.
Ho fatto le due cose, ho detto: “Questo è Locarno, grande cinema autoriale e glamour come tutti i grandi festival che hanno la fortuna di trovarsi in un posto così bello che fa sognare tutti gli stranieri che vengono a Locarno”. Un Americano, un Cinese o un Giapponese rimangono ammaliati al loro arrivo qui sul lago.
Dunque fare di Locarno un posto che fa anche sognare e che da la voglia alla gente di ritornarci per vedere i film. Questo era l’aspetto principale che a mio avviso mancava quando sono arrivato.
Sono molto orgoglioso quest’anno di offrire un livello artistico ed un livello spettacolare più forti del solito, per mostrare che Locarno è un grande festival, punto, non un festival specializzato. Mostrare che non c’è bisogno di avere complessi e continuare a dire: “Locarno tra Cannes e Venezia”, “Locarno il più piccolo dei grandi”, “Locarno festival difficile”. Ho voluto mostrare che quando si vuole qualcosa, e ci si impegna al massimo per raggiungere quel risultato, lo si può fare.

RC: Quindi non c’è una separazione fra le proiezioni diurne, dedicate al Concorso ed ai Cineasti del presente, e quelle della piazza destinate tradizionalmente al grande pubblico. Pensi che il pubblico della Piazza Grande possa seguire il Concorso con soddisfazione, che non ci sia uno stacco così netto?

OP: Questo non lo so. È vero che abbiamo fatto una cosa molto precisa, ovvero un’attenta separazione fra i film della piazza e quelli del concorso. Questo però non significa che il pubblico della piazza non sia in grado di vedere un film del concorso; però la definizione di identità è anche e non solo il risultato della selezione, ma è senz’altro vero che il nostro metodo di lavoro tende ad essere differente nella selezione e nell’invito di film per la piazza piuttosto che per il concorso.
Per il concorso l’unica cosa che conta è la qualità artistica, la riuscita cinematografica del film, le ambizioni dell’autore, l’originalità. Applichiamo un punto di vista assolutamente affine alla critica cinematografica, lavoriamo con lo stesso metodo ed è in questo modo che invitiamo i film. Senza pensare al successo del film, all’accoglienza del pubblico, alla carriera commerciale del film stesso. Questo non è il nostro problema.
La piazza invece è programmazione e non selezione. Ovviamente cerchiamo film che ci piacciono, che troviamo di alto livello cinematografico. Però dobbiamo tenere in considerazione le reazioni della piazza, la sua eterogeneità, anche linguistica. La piazza è composta da professionisti, da critici e da cinefili, ma anche da turisti e famiglie, da persone che non vanno mai al cinema e che però hanno la necessità di vedere uno spettacolo. Dunque la Piazza Grande è il luogo del cinema popolare, inteso nella sua accezione migliore, perché il cinema stesso è arte popolare. Sulla piazza voglio un cinema che faccia piangere e che faccia ridere, che dia emozioni forti, che trasmetta idee e messaggi belli e grandi. È vero che possiamo avere film che non sono dei capolavori, che non vogliono rivoluzionare il linguaggio cinematografico, ma se sono belli sul piano dei sentimenti e delle idee, se sono film onesti, io non ho nessun problema nel prenderli, perché so che saranno un regalo per il pubblico che riempie la piazza. La cosa più bella è quando il mio desiderio e la mia passione vengono accolti dal piacere della piazza.
Potremmo fare delle scelte più facili, lo facciamo quando proponiamo pellicole più adatte per un pubblico italiano, tedesco oppure svizzero, però questo è normale. Ma quando riusciamo ad ottenere un trionfo popolare, da una commedia giapponese come “Saya Zamurai”, di un autore sconosciuto al grande pubblico come Hitoshi Matsumoto – ovviamente tutto il merito va a Matsumoto ed alla sua capacità di far ridere con due parole una piazza di ottomila persone – allora la soddisfazione è molto forte, ed è una sfida eccitante. La piazza è anche un posto dove si può inventare e creare, ma con una forte attenzione a non assumere troppi rischi, lì si possono prendere solo rischi calcolati senza contare solo sul supporto della critica e della stampa o dei cinefili, bisogna tenere conto delle opinioni e dei gusti del grande pubblico.

RC: Dunque la piazza grande è lo spazio per il cinema popolare, un cinema fruibile nel senso più alto del termine. Matsumoto è un esempio perfetto perché era un autore ai più sconosciuto che ha incantato e convinto la piazza. Ci sono state delle opere in Concorso, ad esempio “Terry”, che in piazza ci sarebbero state benissimo.

OP: È possibile, ma già l’anno scorso in piazza avevamo un film con John C. Reilly, “Cyrus” di Jay e Mark Duplass. Due film diversi ma con troppe coincidenze l’uno con l’altro. Ho pensato che non si può portare sulla piazza un film troppo vicino ad un altro. “Terry” l’ho inserito in concorso perché è un film proveniente dal Sundance, diretto da un regista come Azazel Jacobs, già piuttosto riconosciuto come autore da seguire del cinema indipendente americano. L’ho voluto in concorso anche per affermare che quello non è unicamente lo spazio per film seri e difficili, pessimisti, ma è pure lo spazio per le commedie.
Ho fatto la cosa che mi è parsa più giusta ed in linea con le mie idee sul festival. Penso che a dipendenza degli anni, film come “Sport de filles”, o come “Saya Zamurai” o come “L’Art d’aimer” avrebbero potuto trovare il loro spazio anche in concorso, però per quanto riguarda la programmazione della Piazza Grande bisogna ottenere un equilibrio tra cinema autoriale e grande pubblico, e film più leggeri e più divertenti in Concorso internazionale. Altrimenti ci sarebbe un disequilibrio tra le varie sezioni.

RC: Ora vorremmo parlare del Concorso internazionale. Su quali linee di selezione hai mosso la scelta dei film? E poi, dato che una degli aspetti che apprezziamo maggiormente della tua direzione è l’evidenza della tua passione cinefila, quali sono i dati che emergono da un punto di vista critico tra le opere che hai selezionato, quali i temi, le attitudini? Quale stato del cinema contemporaneo è emerso?

OP: Una delle mie valutazioni era che il concorso di Locarno fosse diventato troppo monotono, con solamente un certo tipo di film e produzioni, ed anche solo un certo tipo di cinema indipendente. La mancanza di notorietà di autori giovani funziona benissimo quando i film sono buoni, ma non crea alcuna aspettativa. Era veramente solo un concorso per coloro che cercano i talenti di domani.
Ho invece pensato che sarebbe stato più interessante fare un “pasticcio” fra quello che uno si aspetta, dunque il nome importante e famoso (magari non presso il grande pubblico, ma per chi segue il cinema contemporaneo), insieme alle opere prime ed alle scoperte.
Per questi motivi quest’anno sono molto contento del fatto che in concorso a Locarno si siano potuti vedere registi come Rabah Ameur-Zaïmeche, come Klotz, come Aoyama. Registi che possiedono già una fama ed una reputazione a livello internazionale nel cinema contemporaneo, insieme a degli esordienti senza notorietà. In questo modo c’è la possibilità di attirare la curiosità di giornalisti molto interessati al lavoro di Mia Hansen-Løve, o al lavoro di Klotz, e di poter vedere pellicole che noi per primi abbiamo portato ad un grande festival.
Questo è quel che ho voluto fare quest’anno, pur se la visibilità del nostro lavoro dipende anche dall’operato delle giurie. Quest’anno ho compreso, ed ho in parte condiviso la linea seguita dalla giuria presieduta da Paulo Branco, che mi ha detto da subito che per lui il Pardo d’oro andava assegnato ad un’opera prima, piuttosto che ad un regista importante perché pensa, ed io condivido la sua visione, che supportare e scoprire un giovane regista sia una cosa, giusta, se il film lo merita, ma pure molto utile per la carriera. Ed è per questo che per Shinji Aoyama, un maestro del cinema moderno, è stato creato questo premio particolare, ovvero il Pardo d’oro speciale per il film “Tokyo Koen” e per la splendida carriera.

RC: Ci troviamo a parlare a poche ore dall’assegnazione dei premi da parte delle giurie che non hanno mancato di generare delle polemiche, per le scelte, ma anche e soprattutto per alcune dichiarazioni. Nel momento in cui compili la selezione per il concorso, ti stacchi e non ti preoccupi più dei film, perché sai che quei titoli saranno in mano al pubblico ed alla giuria, o rimane un po’ di attaccamento ai film selezionati?

OP: A livello personale ed a livello privato sono più legato ad alcuni film piuttosto che ad altri però, durante il festival, a partire dal momento in cui i venti film sono annunciati in concorso, dobbiamo assicurare un’attenzione uguale a tutti. Questo accade prima, dopo e durante il festival. Durante il festival sono io stesso ad introdurre tutti i film e lascio che tutti siano giudicati in completa libertà dalle giurie, dal pubblico e da tutta la stampa. Durante il festival non parlo più dei film per non privilegiare uno piuttosto che un altro.
Ora che il festival si è concluso posso riacquistare la libertà di parlare dei film premiati o di quelli che usciranno nelle sale, o di quelli che andranno in altri festival. Quando viaggio o quando sono a Parigi, piuttosto che in Svizzera, presento molto volentieri i film per le loro uscite nelle sale.
Lasciamo libere le opinioni e lasciamo esprimere tutte le opinioni sui film, che siano positive o negative, però siamo sempre vicini agli autori e ai film, ovviamente abbiamo relazioni più o meno forti, più o meno personali, a seconda del modo con il quale abbiamo visto e selezionato il film. Ogni anno si fanno incontri nuovi e si stringono nuovi legami.

RC: Il verdetto della giuria del Concorso internazionale ti ha personalmente soddisfatto?

OP: Molto. A livello personale mi ha soddisfatto il giudizio di tutte le giurie. C’erano film che mi piacciono molto, che considero molto riusciti e che hanno avuto un successo di critica, di stampa e di pubblico che sono assenti dal palmarès, però questo vuol dire che c’erano tanti buoni film, e che quindi è sempre una scelta difficile quella da fare. Personalmente non avrei potuto fare questa scelta perché ci sono troppi film che mi piacevano veramente, quindi ho un rispetto assoluto per la decisione delle giurie.
Penso che “Abrir puertas y ventanas” sia veramente un bellissimo film, molto intelligente, molto riuscito. Ho molta ammirazione per questo film, un film che ho visto da solo a Zurigo alla Swiss Films e che immediatamente dopo la visione ho invitato al festival. La sua vittoria mi rende molto contento.
Sono molto felice pure il film israeliano “Hashoter”, che è un film che ha diviso il pubblico e la critica, ma che personalmente ho sostenuto strenuamente. È un film che ho aiutato dal momento in cui l’ho visto la prima volta a Tel Aviv, ho fatto di tutto per averlo in concorso a Locarno, seguendo i produttori ed il regista nella preparazione dello stesso in maniera tale da essere pronti per una presentazione internazionale a Locarno. È un film al quale sono veramente affezionato e che considero un’opera di grande maestria dal punto di vista registico, molto intelligente: il film è senz’altro una delle opere prime che maggiormente mi hanno impressionato durante quest’ultimo anno.
Penso che Adrian Sitaru sia un regista molto talentuoso, capace di confermarsi dopo il bell’esordio del 2007 con “Pescuit sportiv”. Ha dato conferma di far parte dei grandi nuovi, e giovani, registi rumeni, che sono tanti però tutti, quasi tutti, molto talentuosi e con una personalità diversa.
Sono anche d’accordo con i premi assegnati agli attori, a partire da Bogdan Dumitrache per “Din dragoste cu cele mai bune intentii” di Adrian Sitaru, e poi per María Canale, per la prima volta protagonista di un film. È vero che il film di Milagros (“Abrir puertas y ventanas”) è un ensemble con tre sorelle che hanno tutte e tre un’importanza, un talento ed una bellezza incredibili, ma è pur vero che è lei, in un momento particolare del film, a diventare la protagonista, è lei che diviene il centro della narrazione e compie una performance attoriale veramente impressionante.
Potrei dire la stessa cosa per quanto riguarda i Cineasti del presenti, perché “L’estate di Giacomo” è un film che mi piace molto; avevo già presentato un cortometraggio, “Jagdfieber”, di Alessandro Comodin alla Quinzaine des Réalisateurs, e dunque quando ho saputo che aveva realizzato il suo primo lungometraggio ho avuto la curiosità di vederlo immediatamente e, piacendomi molto, è stato uno dei primissimi film che ho invitato, forse il primissimo. Vederlo nel palmarès è stato un bel regalo e spero che questo sia solamente l’inizio.
Stesso discorso per “El estudiante” di Santiago Mitre, film che trovo molto intelligente, e idem per “Nana”. Conoscevo Velérie Massadian, ma senza conoscere davvero il suo cinema. Quando ho visto il suo primo film l’ho trovato bellissimo, anch’esso dotato di una spiccata intelligenza.
Sono veramente soddisfatto, anche perché penso faccia parte della nostra responsabilità, rispetto al festival, la necessità di comporre una bella giuria. Ci possono essere delle cose che vanno male, persone che non hanno l’abitudine ad un certo tipo di cinema, che non conoscono esattamente quali sono i propri gusti cinematografici. Paulo Branco, Luca Guadagnino, Louis Garrel, Sandra Hüller e Bettina Oberli hanno ognuno una forte personalità, magari hanno litigato fra loro, magari hanno parlato tanto, però ognuno di loro sapeva esattamente che cosa amava e che cosa odiava, e questa è già un’ottima cosa. Ed è per questo che il risultato lo trovo veramente ottimo.

RC: C’è qualche film che ti sembra sia stato recepito male dalla critica, o che comunque a tuo avviso varrebbe la pena d’essere approfondito dal punto di vista critico, o anche solo segnalato?

OP: Devo dire che durante il festival, ma anche un po’ dopo, tendo a non leggere la stampa perché non voglio essere influenzato, o scioccato, o deluso, o portato ad essere troppo euforico dai giudizi espressi.
Durante il festival parlo molto con le persone che sono al festival e dunque ho un po’ il sentimento generale del pubblico della sala, e della critica. Però non ho il tempo e non ho la voglia di leggere tutto quello che viene scritto sui film. Però un po’ di gossip, un po’ di voci le ho sentite, dagli amici e dai giornalisti… posso capire la gioia o la delusione di fronte alle diverse accoglienze.
La cosa che si può notare è che i film francesi in concorso, film di registi importanti, non hanno avuto alcuna presenza nel palmarès. Magari è una decisione legata ai film in sé, o al rapporto di questi con gli altri in concorso. Ritengo che il cinema francese non sia mai, quasi mai, un cinema che provoca unanimità, questo l’ho notato anche negli altri grandi festival, o li si ama o li si odia, ma un film come quello di Laurent Achard, “Dernière Séance”, ha trovato molti estimatori anche se, ovviamente, non è un film per tutti, ma a Locarno un suo pubblico è riuscito a trovarlo; stesso discorso per il film di Rabah Ameur-Zaïmeche “Les Chants de Mandrin”, idem per Nicolas Klotz e Elisaberth Perceval con “Low Life”.
Poi c’è il caso del film di Mia Hansen-Løve, “Un amour de jeunesse”, che era giunto a Locarno con un’ottima fama, visto che era già uscito nelle sale francesi con un grande successo di pubblico e critica.
Mia Hansen-Løve ha già un suo seguito internazionale per cui la sua proposizione qui a Locarno è stata una cosa piuttosto semplice, senza problemi.
Anche i documentari nella sezione Cineasti del presente, ovvero il documentario su Cuba, “El árbol de las fresas” (diretto da Simone Rapisarda Casanova), ed il documentario portoghese passato l’ultimo giorno (“É na terra não é na lua” di Gonçalo Tocha), hanno avuto un successo ben meritato.
Quest’anno c’era in Concorso internazionale un film che ritengo importante, pur se non rientrato nel palmarès, che è il film giapponese “Saudade” di Katsuya Tomita, un film che molti giornalisti importanti (soprattutto francesi e portoghesi) mi hanno detto di considerare un capolavoro, considerandolo uno dei migliori film del festival. Questo mi fa molto piacere perché sono andato a Tokyo unicamente per vedere questo film grazie ad un articolo che lessi su i Cahiers du cinéma, un articolo che dava conto della nascita di una nuova Nuovelle Vague giapponese della quale, questo film e questo regista, sono un po’ emblema.
“Saudade” rappresenta la nuova pelle del cinema giapponese. Sono molto contento che la critica abbia capito la qualità del film e le mie intenzione, ed è un po’ un peccato l’assenza di questo film dal palmarès.
Ma penso che ciò sia dovuto al fatto che, arrivando alla fine del festival, come ultimo film in concorso, abbia goduto di una certa diffidenza da parte dei giurati.
Penso che con il tempo, con alcuni giorni di riflessione, il film diventi ancora più grande nel ricordo di chi l’ha visto, perché è un film che indiscutibilmente rimane nella mente. Penso diventerà un film di riferimento nel cinema moderno, non solo nel cinema giapponese, ma per una comunità di artisti e registi che fanno il cinema in una certa maniera, con una grande libertà ed inventiva artistica. Quando ho visto il film per la prima volta ho pensato un po’ al cinema di Miguel Gomez, al cinema portoghese, ho pensato al cinema taiwanese, o al cinema cinese di JIA Zhang-ke, piuttosto che al cinema giapponese.
Sono contento di ospitare e di condividere “Saudade” in questa famiglia di registi molto giovani che secondo me fanno il cinema migliore del nostro tempo.

RC: Visto che siamo sull’attualità, un’ultima domanda sull’edizione appena conclusa. Al festival sono stati presentati quattro titoli che, ognuno a modo suo, hanno fatto discutere: “Crulic” di Anca Damian, perché è piaciuto molto e a molte persone, ed è spiaciuto notare che sia passato inosservato agli occhi della giuria; quindi “Dernière séance” di Laurent Achard, che arrivava da un buon film come “Le dernier des fous”, ma che nel corso dell’incontro con il pubblico è stato attaccato con particolare veemenza e di cui forse sarebbe stato necessario contestualizzare meglio il tipo di produzione; poi “Sette opere di misericordia”, che è stato sostanzialmente rigettato dal pubblico; e poi “Vol spécial” di Fernand Melgar, che torna a Locarno qualche anno dopo “La forteresse” con un film che al pubblico è piaciuto molto a livello di contenuto – magari il valore cinematografico visivo in sé è meno importante – ma che è stato oggetto di una violenta polemica da parte del presidente della giuria Paulo Branco, che l’ha definito un film fascista.

OP: Beh, ovviamente sono tutti casi particolari. “Crulic” è per me un film importante perché rappresenta un nuovo modo di fare cinema ma, cosa ancora più degna di nota, trova un nuovo modo di trattare un soggetto documentario. Questa è una cosa veramente forte. Un documentario su un fatto di cronaca la cui regista, invece che trarne un reportage, sceglie di utilizzare il linguaggio dell’animazione. Ci sono già stati film documentari d’animazione – pensiamo a “Waltz With Bashir”. Questo film è però molto diverso, si trova sulla linea di un altro titolo famoso, come “Hunger” di Steve McQueen. Dunque, una sorta di matrimonio tra “Waltz With Bashir” e “Hunger” all’interno di un’animazione rumena, un’opera molto particolare. A me è piaciuto parecchio perché si tratta di un film coraggioso, Anca Damian ha lottato molto per fare questo film. Sapevo che questo lavoro avrebbe provocato un shock, perché l’animazione è bella e molto eterogenea, c’è quasi l’idea di usare una tecnica di animazione diversa per ogni sequenza.
L’animazione è stata creata in Polonia da artisti polacchi, perché non è stata la regista a occuparsi dell’animazione, lei ha una formazione come direttrice della fotografia. Si tratta di un progetto davvero unico che mi ha affascinato proprio a livello di cinematografico ma è pur vero che questo tipo di proposta può essere un po’ troppo radicale, troppo diversa e sorprendente, per una giuria. Ciò che conta è che è piaciuto al pubblico, cosa tutt’altro che scontata. Fa parte di quei film che mi piacciono molto, che trovo molto riusciti e originali, ma che non hanno goduto del favore della giuria. Purtroppo sono cose che non si possono prevedere.
A proposito di “La dernière séance” il discorso è simile: personalmente lo preferisco a “Le dernier des fous”, l’ho spiegato a Laurent e a Sylvie Pialat, la produttrice. È un film molto disturbante, inquietante, un film che fa paura – non perché sia un horror, ma perché ha una storia molto forte con un personaggio, sentimenti e sensazioni scioccanti – senza essere uno splatter come “LA Zombie” dello scorso anno. È un film che non lascia indifferenti e può suscitare un sentimento di ostilità. Sono contento che ci siano molti estimatori del film perché lo considero, a livello di regia, ambizione e visione del cinema, un’altra opera unica, molto diversa dal resto del cinema indipendente, dal resto del cinema autoriale francese. Achard è un franco tiratore, non fa cinema come gli altri. Fa parte di una famiglia del cinema di autore francese che mi piace molto: c’è lui, c’è Brisseau, Vecchiali, Cavalier, gente che lavora in modo molto solitario e che fa cinema alla sua maniera, con successi e fallimenti, ma sempre con una propria visione. Achard mi ha detto che per lui ci sono due registi francesi: Brisseau e Mazuy, e di sentirsi parte di quella famiglia. Il fatto che il film sembri quasi un rifacimento di “Psycho”, però alla francese, con un’atmosfera morbosa nei confronti della donna e del cinema, che ne fa un film un po’ malato, nel senso hitchcockiano del termine, me lo ha fatto piacere. Però sapevo già che questo tipo di film non avrebbe mai fatto l’unanimità, non piacerà mai alle famiglie, ed alle persone di una certa età che vanno al Fevi per vedere un film in totale relax, e questo perché si tratta di un film assolutamente scioccante. Però è una pellicola forte, importante nel paesaggio del cinema francese di oggi.
È vero che “Sette opere di misericordia” non ha avuto il successo che tutti si aspettavano, ma rappresenta un passaggio difficile tra una forma di cinema che i fratelli De Serio conoscono molto bene, che è il film saggio, il documentario, il film artistico, e un modo di lavorare più con la finzione, ed è questa l’ambientazione in cui si colloca realmente questo lavoro. Io trovo il film molto bello, trovo che nel paesaggio del cinema italiano sia davvero la proposta più forte e artistica che abbiamo visto, ed è questo il motivo per cui lo abbiamo invitato. È vero che è un film duro, un film non troppo facile perché intriso di tristezza, di violenza e lotta, però è un film che mostra un modo di resistere a un certo tipo di cinema italiano, anche nel modo di pensarlo e produrlo, una modalità che ammiro profondamente.
A proposito di “Vol spécial”, è vero che rappresenta la polemica inaspettata del festival. Perché ci sono due tipi di polemica: quella che ti puoi aspettare e quella che non puoi minimamente figurarti, che sorprende tutti i giornalisti, il regista e pure il festival. Dite una cosa giusta: penso che sia un film importante perché è un film che apre gli occhi agli Svizzeri e, grazie a Locarno, al resto del mondo, su una situazione orrenda, ingiusta e inaccettabile. Questa è la vera forza del film. Il suo messaggio è magari più
complesso, ecco perché trovo interessante il modo di lanciare un dibattito su di un film che, prima della polemica violenta, eccessiva, di Paulo Branco, godeva di un certo tipo di consenso, di un’unanimità che io ho trovato un po’ strana. Come se la gente si preoccupasse solo della situazione che il film descrive e meno del film in sé. Quindi era importante parlare anche del film. È vero che la regia è piuttosto classica per un documentario, però è anche il dispositivo che diventa il messaggio del film, al di là di dire che si tratta di una situazione disumana e ingiusta che non deve esistere più. Il messaggio di Melgar sta nel dimostrare che la disperazione è in entrambi i campi e che la gente che lavora in questi centri è anch’essa vittima di un sistema, di un modo pensare, di fare leggi come quella; parla del rapporto che esiste sempre nelle prigioni, nelle guerre, nelle vicende di cronaca, tra la vittima, la persona in situazione di debolezza, e la persona in situazione di forza, che ha un potere sulla prima. Quindi trovo il film buono nel modo in cui mostra una certa amicizia, una certa contiguità data dal vivere insieme una situazione molto strana e particolare che diventa assurda, kafkiana.
Io non voglio parlare a nome di Branco né a nome di Melgar, perché io ho solo visto il film e l’ho apprezzato per quello che è, però so che Branco si è davvero arrabbiato con il film e il suo modo di lavorare su un centro all’interno del quale esiste una situazione di ingiustizia. È il problema legato all’intervento o non intervento di un testimone, regista o fotografo, che realizza il suo lavoro anziché ribellarsi o intervenire in modo più diretto. È un modo molto particolare di lavorare quello di Fernand Melgar, lo ha già usato nei film precedenti. È un sistema che ha creato sentimenti di collera e rifiuto da parte di Paulo Branco e anche di alcuni altri membri della giuria. Era talmente arrabbiato che non ha potuto fare a meno di esprimersi in modo polemico alla conferenza stampa quando una persona ha chiesto: “Perché non ci sono film politici nel palmarès?”. Prima di tutto non era vero perché il film israeliano “Hashoter” è un grande film politico e la risposta di Branco è stata che già l’atto di fare cinema significa fare politica, che non occorre parlare di politica in un film per girare un film politico. Questo lo sappiamo già da Godard e da altri grandi registi.
Poi, come secondo punto, ha detto che in concorso c’era un film politico che lui aveva odiato ed è partita questa polemica.
La parola “fascista” la lascio a Branco così come lascio a lui il compito di spiegare perché abbia usato questo preciso termine, però direi che è una polemica tra lui e il regista e che se devono esprimersi a riguardo è bene che siano i giornalisti a invitarli a farlo. Io ho spiegato la mia posizione in questo caso.
Perché io l’ho detto a Branco e lui mi ha risposto: “Nessuno mi ha chiamato ancora”. Hanno paura, penso (ride).

RC: Ci piacerebbe sapere qualcosa a proposito della sezione Open Doors, come proseguirà e, magari, anche un bilancio dell’edizione appena conclusa.

OP: È stata un’edizione positiva. Open Doors è sotto la responsabilità di Martina Malacrida e Nathalie Soldini che ne sono le organizzatrici. Io, principalmente, decido il Paese o il continente e subito dopo mi reco sul posto. In India ho incontrato i protagonisti del cinema indiano e quindi da questo punto in poi ho lasciato la responsabilità del progetto Open Doors. Abbiamo, come di solito, selezionato 12 progetti indipendenti. La cosa particolare accaduta quest’anno è che, anziché selezionare i progetti indiani, non abbiamo potuto portare i film già pronti perché non c’era niente di eccezionale o di sufficientemente forte per Locarno, e questo mi è spiaciuto.
Però la cosa interessante è che quest’anno anche nel Concorso cineasti del presente e nel Concorso ufficiale c’erano tre o quattro progetti Open Doors delle edizioni precedenti: il film dell’Asia centrale “Sunny Days”, quello israeliano “Tanathur”, il cinese “Hello! Shu Xian Sheng”. Devo dire che c’è una continuità tra i progetti che sono presentati o premiati a Locarno: la collaborazione con i produttori e i registi, e il fatto che se il film è bello siamo contentissimi di portarlo in concorso come è successo con il Pardo d’oro dello scorso anno “Winter Vacation”.
Per l’anno prossimo abbiamo già un’idea, che però non posso dire davanti a un microfono perché faremo più in là un annuncio ufficiale. Però stiamo già lavorando sul Paese del prossimo anno. A proposito della situazione molto particolare del cinema indiano è bene che io dica che non è facile invitare e produrre questo tipo di cinema indipendente. Ora aspettiamo di vedere i progetti indiani di Open Doors per poter nuovamente invitare il cinema indiano in concorso o nella sezione Cineasti del presente.

RC: Un’altra sezione che ha un suo pubblico particolare è la retrospettiva. Dopo alcuni anni in cui la retrospettiva sembrava trascurata, un po’ troppo compilativa e contenente film molto diversi fra loro, siamo passati a Lubitsch lo scorso anno e a Minnelli in questa edizione. Due retrospettive importanti su due grandi nomi della storia del cinema. Una retrospettiva molto godibile fatta anche di cinema popolare…

OP: Esatto. Come ho detto, faceva parte di questo progetto di ritornare alle radici del Festival, alle origini e alla tradizione del Festival. Io, anche se non ero un assiduo visitatore del Festival perché abitavo a Parigi, sapevo, perché andavo molto alla Cinématheque Française, che c’erano delle grandi mostre di cinema a Locarno quando Locarno faceva tutto Boris Barnet o tutto Sacha Guitry o Allan Dwan, tutti registi più o meno famosi. Le rassegne venivano talvolta riprese alla Cinématheque. Quando nel 1994, se non sbaglio, ho visto tutto Sacha Guitry in due mesi alla Cinématheque è stato grazie a Locarno.
È vero che quando sono arrivato c’erano retrospettive più legate all’attualità che ai Maestri del cinema.
Ho pensato che fosse meglio ritornare al patrimonio più classico del cinema per creare un equilibrio tra la modernità assoluta e la sperimentazione, la radicalità propria di Locarno, e il grande cinema classico hollywoodiano e internazionale. Dunque la cinefilia del passato e quella del presente e del futuro si incrociano, volevo affermare che per poter giudicare, criticare, o anche solo amare un film di Pedro Costa o Lisandro Alonso, o il cinema di giovani registi contemporanei, e quello di quei cineasti che lo faranno a Locarno domani o dopodomani, è sempre interessante, ed importante, conoscere la storia del cinema.
È per questo che ho voluto ritornare alla cinefilia, al cinema classico attraverso Lubitsch. Con la scelta di Lubitsch il messaggio era anche quello di tornare al piacere, alla gioia, alla felicità di vedere film così grandi, così geniali e nel contempo aperti al pubblico di ieri e oggi. L’universalità di Lubitsch è stata ovviamente un grande successo, era facile prevederlo, e Minnelli è stato il seguito ideale di questa impostazione.
Minnelli è magari meno geniale perché non ha iniziato all’epoca del muto, ha iniziato molto dopo Lubitsch, negli anni ’40, quasi quando Lubitsch muore. Però negli anni ’40, ’50 e ’60 Minnelli è un Maestro del cinema, un Maestro un po’ sottovalutato al contrario di Lubitsch, che ha conosciuto la gloria nel momento in cui faceva film ed era considerato un genio assoluto nella sua epoca; Minnelli ha dovuto attendere per essere considerato un Maestro, un grande regista e un artista. Questo non porta nulla di più al pubblico, rimane il piacere di godere di film come “Un americano a Parigi”, “The Band Wagon”, dei grandi melodrammi su grande schermo. Abbiamo visto che anche quest’anno è stato un grande successo, un grande piacere per tutti, sia per i cinefili che per il grande pubblico. Poter vedere i film di Minnelli con Leslie Caron, con Jean Duchet, con Emmanuel Burdeau, che ha scritto il catalogo (E. Burdeau, Vincente Minnelli, Ed. Capricci, 2011; NdR), a presentare i film fornendo elementi di critica, informazioni, analisi sul cinema di Minnelli.

RC: E sulla base di questa linea che stai descrivendo, a chi potrebbe essere dedicata la prossima
retrospettiva?

OP: Ah, vi lascio indovinare. È abbastanza facile. Il nome l’ho già trovato ma non lo posso dire (ride). C’è una continuità tra Lubitsch e Minnelli. Anche se è un regista la cui opera non ha quasi nulla a che vedere con la commedia o la commedia musicale, a livello dell’importanza e della sua posizione nella storia del cinema ha a che vedere con questi due nomi.

RC: Noi potremmo proseguire fino a domani ma pensiamo sia il caso di far concludere a te, con un ultimo pensiero, una sintesi dal tuo punto di vista di questi straordinari dieci giorni di cinema.

OP: Non ho detto tutto, ma le cose per me più importanti, per il mio lavoro e per la mia visione.
Soprattutto ho cercato di puntualizzare il rapporto esistente fra chi il festival lo fa, ed il luogo che lo ospita. Mi piacerebbe che quest’anno la gente si rendesse conto che il festival è per loro e che sono invitati a vedere i film. So che per gente come voi, cinefili ed appassionati di cinema, Locarno è già un momento importante. Con gli artisti che abbiamo portato quest’anno a Locarno era facile trovare un motivo di interesse, da Raya Martin passando per Straub, ma anche Aoyama. Però il fatto di far scoprire Matsumoto a tutti, di mostrare “Le Havre” in Piazza grande, di avere un gran successo con il film canadese “Bachir Lazhar”, e far sognare con la Cardinale, con Depardieu e Harrison Ford. Penso sia qualcosa di veramente importante.

RC: Parli sempre di questo rapporto con il pubblico ed in questo senso nell’ultimo anno hai fatto un passo in più, rivolgendoti direttamente ad esso attraverso un blog (olivierpere.wordpress.com).
Paradossalmente è una cosa abbastanza nuova, sono rari i direttori di festival che lo fanno… o che comunque lo aggiornano con la tua frequenza, e con la mole di testi critici da te appositamente realizzati.

OP: Finalmente quest’anno mi hanno convinto ad aprire un blog, non per parlare della mia vita privata (ride), ma un blog al 100% cinefilo che parla un po’ dell’attualità, delle retrospettive e degli omaggi, che segue la vita del Festival di Locarno fuori dal festival di Locarno. Da conto di quando un film esce, oppure segnala qualche nostro annuncio per le prossime edizioni. Mi sta dando molto piacere realizzarlo, aggiornarlo frequentemente, mi ha fatto molto piacere finalmente tornare a scrivere in maniera libera, senza la committenza di un giornale o per un libro. L’ho fatto con enorme gusto perché parlo con assoluta libertà di quel che mi piace del cinema. Scrivo di cinema seguendo un qualche pretesto che mi pare interessante.
Durante il festival, pur avendo un nuovo sito, Pardolive, sul quale scrivo e che è veramente eccezionale, molto ben fatto ed interessante, mi sono pure tolto lo sfizio di aggiornare quotidianamente il blog del Direttore artistico. Ovviamente non ho parlato dei film in concorso perché sarebbe stata una cosa decisamente imbarazzante, ma parlo degli omaggi e dei film in Piazza grande, per dare un punto di vista personale sull’evento. Ma pure per dimostrare che i blog dei festival non sono solo resoconti delle serate mondane… non è niente di proustiano questo blog (ride), ma è una dichiarazione di amore alle attrici ed agli attori, alle registe ed ai registi che abbiamo invitato a Locarno, o che sono passati ad assistere come semplici spettatori come, quest’anno ad esempio, amici come Aldo Lado e Lamberto Bava.

RC: Grazie a mille.

OP: Grazie a voi.

Locarno, 14 agosto 2011

Olivier Père sul palco di Piazza Grande con Gérard Depardieu e Sylvie Pialat

Video
Intervista: RR + AG / Rapporto Confidenziale
Realizzazione: Emanuele Dainotti
con Stefano Scagliarini e Giulio Tonincelli
Post-produzione: Alessandro G. Capuzzi e Emanuele Dainotti
Produzione: Sette Secondi Circa (www.settesecondicirca.com)
Musica: Digital Primitives (Brano: “Bones”. Album: “Digital Primitives”)
CC BY-NC-ND 3.0

Tutte le immagini pubblicate in questa pagina sono di Giulio Tonincelli (www.giuliotonincelli.com)



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